Mesi e mesi di preparazione per questa gara e ora sono qui. Sarà tutto perfetto, me lo sento.
Primi tre fischi dalla sinistra.
Un piede sul blocchetto. Il tempo di riempire i polmoni.
Ultimo fischio.
Salgo sul blocco.
M’è sempre piaciuto guardare da quassù la vasca così lunga e l’acqua così calma. Mi da un senso di intimo e unico che per assurdo si ripete ogni volta.
“A posto… Via!!”
All’arrivo mi volto tra le onde di una piscina che 50 secondi fa erano inesistenti.
Ottavo.
Ottavo!? Bellissimo!
Ho vent’anni e sono l’ottavo nuotatore in Italia, faccio fatica a crederlo. È il compimento di una delle tante tappe che portano tra i migliori in questo sport. Ottavo! Eppure…
C’è qualcosa che non va.
Il braccio destro è gonfio, mi fa male; il tempo della gara non è stato poi un granché. Com’è possibile? Ero in piena forma, in allenamento non facevo altro che migliorare di giorno in giorno.
Non so.
Poi vedremo, farò dei controlli medici per essere tranquillo.
Adesso devo godermi il momento. Amici, compagni, parenti e allenatore sono euforici; urliamo insieme di gioia e il sorriso non me lo toglierà niente e nessuno per almeno una settimana.
I risultati dell’ecodoppler, il primo di una lunghissima serie, riscontrano una chiusura della vena succlavia destra e della speculare arteria a sinistra. Si chiama “Sindrome dello stretto toracico superiore” o “tos”, e segnerà per sempre la mia vita da atleta e di uomo.
Servono maggiori accertamenti, visite mediche, tac, risonanze, radiografie per capire come intervenire; intanto, volente o nolente, sono d’accordo con i dottori nel ridurre drasticamente l’attività fisica. Questo non mi spaventa più di tanto; ho sempre lottato fino a che le forze me lo permettevano, ho sempre risolto tutti i problemi con grinta e determinazione.
Passano i mesi. Tanti.
Troppi per chi come me decide di dedicare la sua vita a un sogno; troppi mesi di stop per chi come me è abituato ad allenarsi ogni giorno mattina e sera, cinque ore in acqua, che fanno 30 ore alla settimana, 33 se si conta la palestra; per chi come me si sveglia la mattina all’alba per potersi allenare prima delle lezioni in università, è deprimente anche un solo giorno di lontananza dall’acqua.
Dai vetri della piscina ho visto albe e tramonti da quando avevo 5 anni. Nuotare è un po’ come realizzare il sogno più antico dell’uomo: volare. Come non innamorarsi quando capisci che in acqua sei un uccello senza piume? L’acqua poi ti purifica da ogni male; è come l’abbraccio di una mamma che ti fa evadere dal contesto attorno: il silenzio, la pelle fresca, il battito del cuore. È anche un modo per stare soli con se stessi e pensare o liberarsi dai pensieri, scaricare rabbia e stress.
Segregato a bordo vasca mentre avversari e amici si allenano sento che dentro di me la rabbia cresce, ma con chi mi devo arrabbiare? Chi ha la colpa di tutto questo? Chi ha tagliato il filo sottile che mi guidava al sogno? Sto combattendo, guantoni alle mani, un avversario invisibile.
Sento che la mia sicurezza e la mia sbruffonaggine di ventenne piano piano svaniscono. I miei amici si fermano a chiedermi come sto, ma la risposta è sempre la solita: “Ancora non sappiamo come risolvere”; oppure mi dicono: “Sai, si capisce che soffri, hai perso il tuo sorriso. Non t’ho mai visto senza”.
Perdere il sorriso.
Quante volte ho pensato a questa frase.
Non ero più io. La “tos” mi stava trasformando. Non solo all’interno, ma anche al di fuori. Non ero più io.
E il mio sogno? Le Olimpiadi. No. Per me non è pensabile rinunciarvi! Devo resistere, devo continuare a lottare. Finiranno queste analisi, questi controlli, piccole torture indolori che confermano la presenza del “Nemico” dentro di me. Finiranno e allora tornerò. Sono giovane posso recuperare in fretta.
E sono troppe le volte che ho pianto in macchina al ritorno dall’ospedale; sono troppe le volte che ho urlato soffocate grida nel cuscino; sono troppe le volte che mi sono arreso. Ma vicino a me, o dall’altra parte del telefono, ogni volta che ne ho avuto bisogno c’è sempre stato chi da sempre è li con me. La forza che a me manca adesso mi viene data dai miei genitori, e dalle persone care.
Capisco quanto è importante stare uniti; lottare insieme; sostenersi. La mamma è continuamente al telefono con i dottori. Mi abbraccia, mi dice che ce la faremo, che tutto finirà.
In alcuni momenti fatico a crederle. In quei momenti di resa, dove quasi riesco a mettere il cuore in pace, mi siedo e fisso il vuoto.
A lei bastano pochi esili abbracci e le parole forti delle mamme per farmi infuocare di nuovo. Penso: “Per fortuna non sono solo… Un ragazzo non dovrebbe mai provare queste sensazioni. Nessuno dovrebbe”.
Squilla il telefono…
“Pronto mamma”
“Ci siamo! Abbiamo un appuntamento al San Raffaele di Milano con la Dott.ssa Castellano!”
“Davvero?”
“Si tra qualche giorno andiamo!”
“SI”
Quattro ore di macchina in autostrada, un niente e siamo “su”. Il babbo guida, io e la mamma sonnecchiamo, mio fratello ha gli esami dell’Università, è rimasto a casa.
Aspettiamo in sala di attesa e l’atmosfera è molto rilassata; scherziamo, ridiamo.
“Bellacci?”
Esce la Dottoressa; a sentirle pronunciare il mio nome è come se mi stessi levando di dosso 100 chili di fango. Guardo la mamma e sorridiamo. Siamo sereni. Questa volta ce la facciamo. Dai.
Finita la visita mi dico subito: “Da oggi credo di avere due mamme”.
La Dottoressa è stata così gentile, precisa, premurosa. Non mi sono mai piaciuti gli ospedali, ma qui mi sento tranquillo. Dentro di me so già che tutto si risolverà. Mi pervade un senso di sicurezza mai provato. Dai, coraggio.
Penso che non sia facile starsene chiusi in ospedale, qualsiasi malattia o problema uno possa avere. No non lo è per niente: le attese, le notti insonni, il dolore degli altri, il tuo. Però…
Ho però scoperto alcune medicine che il dolore te lo fanno dimenticare, almeno per 5 minuti o 10 o 30 secondi. Una nuova morfina, dei forti antidolorifici: gentilezza, cordialità, disponibilità, rispetto e soprattutto i sorrisi. Non servono prescrizioni mediche e non serve nemmeno richiederli agli infermieri o ai dottori dopo aver premuto il bottoncino rosso; sono loro e le persone che mi stanno accanto che distribuiscono questa cura. Sono gli infermieri che mi controllano giorno e sera, salutando con un sorriso; è la Dottoressa che viene personalmente a scambiare due parole, ogni giorno; è la mamma che mi tiene la mano, che mi parla, che siede vicino a me tutto il giorno; a volte sono gli altri pazienti, i vicini di letto, i “coinquilini” che ti riempiono le ore con qualche chiacchiera sul calcio, sulla loro terra.
E come qualche mese prima mi chiedo: “Di chi è la colpa…? Chi ha voluto tutto questo…?” Oggi ho la risposta, sudata e ora assaporata come una vittoria: fa parte della crescita di un essere vivente superare le difficoltà più grandi che la vita gli riserva; superarle e diventare più forti, fisicamente e mentalmente; imparare a combattere senza arrendersi mai.
Nelle difficoltà poi, si incontrano persone splendide, persone nuove che combattono per te, con te, perché conoscono il dolore che può provare una persona.
Sono consapevole che senza queste persone, senza i miei familiari, senza la loro presenza e il loro impegno non avrei vinto la “TOS”.
L’intervento è riuscito e ho lasciato l’ospedale 3 giorni dopo l’operazione. Bèh certo fa male, e prima di tornare al cento per cento passeranno alcuni mesi, ma la sensazione che ho provato la sera nel mio letto di casa è stata indimenticabile, come se dentro un fango pesante e puzzolente mi scivolasse via piano, piano durante le ore di sonno. Adesso sono libero e molto più leggero.
FRANCESCO BELLACCI – PALMARES